FARE IL MANAGER IN UN PAESE CONFUSO
Lunedi - Ottobre 22, 2012 7:26     Visto:318     A+ | a-

FARE IL MANAGER IN UN PAESE CONFUSO
 
C’è una grande confusione in Italia, seconda manifattura in Europa, su ciò che ci si deve aspettare da un manager, quali debbano essere le sue competenze,  quali i risultati che gli si possono e devono chiedere.
 
A tale confusione hanno contribuito la marginalità e il familismo delle imprese italiane che nei posti di comando – un comando molto relativo, per la verità, a  causa dell’accentramento dei poteri che in tali realtà assume caratteristiche patologiche – mettono di solito dei personaggi più accondiscendenti che efficienti, le grandi aziende monopoliste che, prive del pungolo della concorrenza, hanno fatto crescere al loro interno delle corti di grandi sacerdoti del nulla ma in compenso molto esperti dell’intrigo, la pubblica amministrazione in genere che per il tramite dell’incestuoso rapporto con la politica ha distrutto in gran parte dei propri dirigenti ogni tensione ideale verso i concetti di dovere e di responsabilità individuale ed infine le tante business school che propongono un modello di manager con la testa piena di tecnicalità che lo faranno apparire molto competente nei curricula-fotocopia e nei colloqui di selezione ma che non gli saranno di nessun aiuto quando dovrà sporcarsi le mani nel tentativo di portare verso un risultato decente un gruppetto di persone magari diffidenti, recalcitranti, demotivate, stressate, quando non apertamente ostili.
 
E’ incredibile come la maggior parte degli imprenditori – ma anche tante Alte Direzioni – cada nella trappola di ritenere che la chiave del successo, per un manager, risieda nella sua competenza tecnica. Questa è necessaria, beninteso, ma non è sufficiente. Non comprendere questo dettaglio, che non è per nulla un dettaglio, può essere molto pericoloso e può originare per l’impresa – o per qualsiasi organizzazione – quel tipo di danni, che noi chiamiamo  occulti, che non potendo essere contabilizzati in nessun conto economico, spariscono semplicemente dal campo della consapevolezza. Ma non per questo sono privi dei loro effetti nefasti, tutt’altro.
 
Proverò a fare un esempio. In un ambiente di lavoro bisogna assolutamente risolvere alcuni problemi tecnici  ed è necessario che da qualche parte sia disponibile e pronta la competenza per poterlo fare. Ci sono però anche altre esigenze che sono altrettanto o forse più importanti. Per esempio far capire alle persone in che cosa consiste il proprio ruolo, provvedere alla loro crescita, spiegare obbiettivi, strategie e schemi di azione così che i problemi si risolvano prima ancora che sorgano, commentare i risultati dopo l’esecuzione di un programma, stimolare il lavoro di squadra e la collaborazione, promuovere l’auto-organizzazione dal basso, correggere i comportamenti individuali incongruenti e dannosi per l’organizzazione, ottenere da tutto il team la performance necessaria per essere competitivi curando nello stesso tempo la motivazione e la gratificazione delle persone e infine vedere con occhio clinico tutte le defaillance del sistema – e si tratta quasi sempre di problemi umani più che tecnici, come sa chiunque abbia una minima esperienza direttiva – avendo inoltre la capacità di far presenti  i punti critici all’autorità superiore  senza alcuna reticenza o timore reverenziale, assieme ovviamente alla propria proposta di azione per ottenere il cambiamento.
 
Ebbene, per ottenere tutto ciò, per fare cioè  il vero  lavoro del manager, serve molto di più che la semplice competenza tecnica nello specifico settore in cui si opera. E le aziende che, fissate sulla competenza tecnica – come se solo da questa dipendesse il successo – rinunciano , perché non lo vedono, al vero contributo che deve essere ottenuto da un manager, sono aziende o organizzazioni che soffrono di un grave difetto di prospettiva. L’equivoco consiste in questo: per risolvere i  problemi tecnici non servono manager  ma servono specialisti senza incarichi di comando  (collaboratori super specializzati da considerare come consulenti interni dei manager) e di questi specialisti ne serviranno sempre di più e sempre di più preparati dato l’approfondirsi vertiginoso delle conoscenze, evoluzione alla quale nessun manager potrebbe mai tener dietro.
 
I manager devono invece essere utilizzati e sono, in questo, irrinunciabili, per cambiare le cose nelle situazioni sclerotizzate, per costituire un esempio di comportamento che possa ispirare gli altri, per raggiungere obbiettivi, per dare stimoli alle persone, per sostituire ai vecchi schemi oramai obsoleti nuovi modi di pensare e nessun tecnico, per quanto bravo, potrà mai ottenere tutto questo, se privo  di quel complesso di qualità che possiamo chiamare attitudine al comando. Si tratta di qualità molto rare (tra le quali spiccano l’energia e la passione per il fattore umano) e oltretutto di difficile acquisizione al contrario di quelle tecniche, per le quali è sufficiente una diligente applicazione. Inoltre non dovrebbe mai essere dimenticato, come succede purtroppo in tante piccole imprese, che questa dura  legge comincia ad essere valida fin dai primi livelli di management,  costituita dai capi squadra, capi reparto, capi settore, ecc.
 
Finché imprenditori, grandi aziende, pubbliche amministrazioni e business school non comprenderanno profondamente la differenza tra ciò che si deve chiedere ad un manager – soprattutto ora  che il futuro di molte organizzazioni si gioca sulla capacità di cambiamento – e ciò che ci si deve invece  aspettare da uno specialista tecnico, continuerà la confusione attuale insistendo a piazzare nei posti di comando  persone molto capaci tecnicamente ma completamente inadatte ad affrontare il cambiamento, ovvero la sfida esiziale che segnerà la differenza tra chi tra qualche anno continuerà a far parte del sistema produttivo e chi invece ne sarà stato estromesso, come sempre è avvenuto, sul nostro pianeta, per tutte le forme di vita che si sono dimostrate non funzionali all’evoluzione.
                                                 Pepe Caglini
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