UNO « STATUTO DELL’IMPRESA», SUBITO
Domenica - Aprile 14, 2013
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UNO « STATUTO DELL’IMPRESA», SUBITO
Ciò che più mi ha deluso del lavoro dei saggi, nella parte dedicata all’economia, è la totale assenza del sia pur minimo accenno ad un cambiamento di prospettiva culturale circa il ruolo dell’impresa nella società e nel mercato odierni. Eppure sarebbe stato quanto mai opportuno farlo. Se non ora, quando?
Approfittare della gravità della crisi e della irripetibile occasione offertasi ad un gruppetto di persone qualificate ed intelligenti – che per un attimo si trovano sotto i riflettori – per dare una spallata a più di mezzo secolo di pregiudizio ideologico era esattamente ciò che mi sarei aspettato. Hanno invece lavorato riposando non più di quattro ore a notte, a quanto si dice, per arrivare al traguardo, sfiniti e magari anche intimoriti dall’ardire delle loro fiacche idee, con una manciatina di proposte certamente utili e necessarie ma assolutamente insufficienti rispetto alla situazione nella quale ci troviamo.
E allora non essendo per nulla saggio ma abbastanza addentro alla cosiddetta realtà produttiva proverò io a lanciare il sasso nello stagno chiedendo al lettore il non indifferente sforzo di spostarsi mentalmente dalle soluzioni-tampone (sacrosante, ovvie e tutto sommato semplici da adottare ma che, nel loro insieme, possono tutt’al più curare i sintomi, non certamente la malattia) alla soluzione radicale, l’unica in grado di liberare il potenziale italiano e di riportare questo Paese in cima alle classifiche mondiali della produttività e del benessere, dove meriterebbe di tornare per talento, iniziativa, creatività e capacità di adattamento.
Questa soluzione si chiama statuto dell’impresa e così come lo statuto dei lavoratori 43 anni fa cambiò in Italia il paradigma culturale del lavoro dipendente , lo statuto dell’impresa dovrebbe ridefinire la cornice filosofica, morale, sociale e normativa all’interno della quale lasciare che il talento imprenditoriale italiano possa fare ciò che sa fare meglio, cioè innovare e proporre al mondo ciò che di meglio si può desiderare e produrre. Senza che ad impedirlo provveda un apparato irresponsabile ed autoreferenziale che sembra appositamente progettato per sabotare chi si sforza, nonostante tutto, di andare avanti.
Immagino questo statuto come un tardivo ravvedimento e come una radicale presa di distanza rispetto alla falsa coscienza e ai puri e semplici misfatti legislativi e amministrativi che tanta parte hanno avuto nel declino italiano. Ricordo che all’epoca dello statuto dei lavoratori nessun dipendente si era mai suicidato mentre dal 2008 sono già più di 50 gli imprenditori che lo hanno fatto. Sarebbe opportuno che questo fosse tenuto a mente da quanti pensano che dalla situazione attuale si possa uscire con qualche provvedimento all’acqua di rose.
I pochi articoli del mio immaginario statuto dell’impresa, che tanto vorrei che venisse adottato in Italia, sono dunque i seguenti.
Art. 1 – Lo Stato riconosce l’impresa e l’iniziativa privata come primarie fonti di produzione di ricchezza, di benessere e di promozione sociale. Pertanto ne favorirà in tutti i modi nascita, sviluppo e crescita concependosi come facilitatore fondamentale in questo processo di valore strategico per l’interesse nazionale.
Art. 2 – Nessuna impresa dovrà pagare in tasse più del 25% del proprio reddito netto.
Art. 3 – Ogni impresa, a prescindere dalla sua dimensione, è libera di determinare e modulare il proprio organico come meglio ritiene. Le persone eventualmente licenziate vengono tutelate nel loro reddito da apposito programma governativo senza perdita di nemmeno un’ora di retribuzione.
Art. 4 – L’avvio di un’impresa è assolutamente libero e privo di oneri. Qualsiasi controllo normativo avviene ex-post e senza oneri di qualsiasi tipo per l’impresa, che può rivalersi nei confronti dello Stato per ogni indebita perdita di tempo. Gli organi tecnici e amministrativi dello Stato sono a disposizione in qualità di consulenti e a titolo gratuito. Essi si impegnano inoltre ad assistere l’impresa in tutte le sue necessità di promozione all’estero creando in tal modo un vero e proprio “sistema Paese”.
Art. 5 – Ogni impresa si impegna a destinare il 2% del proprio fatturato a programmi per lo sviluppo dell’innovazione e del capitale umano usufruendo di analogo contributo dello Stato.
Art. 6 – L’imprenditore che falsifica il bilancio perde il diritto ad esercitare l’impresa.
Se queste modeste e tutto sommato ancora timide proposte vi sembrano le provocazioni di un pazzo significa che non avete ben presente a quale stato di sfiducia, depressione e umiliazione sono state ridotte le aziende italiane dalla protervia burocratica di uno Stato che si è allargato troppo, che non è consapevole di averlo fatto e che conseguentemente non sta facendo nulla per rimediare.
Altro che il brodino riscaldato dei saggi. Per carità, non è che i loro consigli siano sbagliati, sono solo piccoli impacchi su una gamba oramai di legno. Ritengo che per rimettere in corsa gli italiani e, cosa non secondaria, per evitare che scappino anche gli ultimi investitori esteri, sia necessario pensare in un altro modo (prendere esempio dai cosiddetti dipendenti che hanno già cominciato a farlo) e soprattutto pensare in modo coraggioso.
Pepe Caglini