QUALITA’ UMANE E LAVORO : ELOGIO DELLA COLLABORAZIONE
Domenica - Maggio 12, 2013 13:02     Visto:625     A+ | a-

QUALITA’ UMANE E LAVORO : ELOGIO DELLA COLLABORAZIONE
 
E’ molto difficile comprendere in profondità il senso della collaborazione in assenza di una esperienza di vita nel corso della quale sia stato giocoforza il praticarla e il chiedere ad altri che venisse praticata. Il risultato è che quando si parla di collaborazione in astratto il discorso rischia di annacquarsi  in affermazioni scontate e vagamente moralistiche. Cercherò di evitarlo in questo scritto ricorrendo, per quanto possibile, ad esempi concreti.
 
Di cosa si tratta. In tutto il mondo e in quasi tutti gli ambienti oggi il lavoro si svolge in team, all’interno dei quali le persone devono interagire adottando ciò che viene definito uno spirito di squadra. In un contesto del genere una inettitudine alla collaborazione porrebbe la persona interessata sullo stesso piano di un pilota che non sapesse fare un atterraggio o di un chirurgo cui desse fastidio la vista del sangue. In altre parole una carenza professionale di tale portata da rendere problematica l’impiegabilità della persona. La collaborazione dunque, in un contesto lavorativo, non va intesa semplicemente come una apprezzabile qualità, qualora ci sia, ma come una competenza irrinunciabile. E come tutte le competenze, essa può e deve essere insegnata, appresa e pretesa.
 
Come si comporta in azienda una persona collaborativa. Una volta compreso  che il collaborare in un team non consiste in un generico essere disponibili – che   può esserci o non esserci – ma in una vera e propria religione che richiede una pratica concreta, non sarà difficile né sembrerà bizzarro praticare quelli che io chiamo «i 15 piccoli gesti». Sembrano ovvietà, hanno invece un significato profondo e tendono a diffondere nell’ambiente un contagio (positivo). Eccoli : rispettare tutti a prescindere dal ruolo che svolgono; lasciare pulito e in ordine; rimettere gli attrezzi a posto; compilare bene i documenti; consegnare il proprio lavoro a “zero difetti”; dare una mano quando viene richiesto e anche quando non viene richiesto; chiedere “per favore”; ringraziare; dare le informazioni (passare ciò che si detiene o si sa senza difficoltà o indugi); quando c’è un problema non polemizzare ma avanzare proposte per risolverlo; usare il “noi” al posto di “io”; chiedere «cosa ne pensi?»; ammettere l’errore («ho sbagliato…»); complimentarsi quando è il caso («hai fatto un buon lavoro…»); dare l’esempio in ogni circostanza.
 
Come tante specie animali l’uomo è naturalmente portato alla collaborazione avendo compreso da tempo immemorabile che il comportamento cooperativo è funzionale alla sopravvivenza . Tuttavia circostanze particolari possono attenuare o mettere in seconda linea gli aspetti cooperativi facendo prevalere le spinte egotiche e individualistiche. Tra queste circostanze quella più nefasta in assoluto è la presenza di dirigenti che non prestano alcuna attenzione al fattore umano non ritenendo che tra le loro incombenze figuri anche la crescita  dei team che sono stati loro affidati. In tali  situazioni  la furbizia prevale sull’intelligenza e l’idea che esista un bene superiore per il quale vale la pena sacrificarsi insieme ad altri sembra risibile, anche perché nessun  “esempio” che conta sta lì a dimostrare il contrario. E’ per questo motivo che la religione della collaborazione, fatta come abbiamo visto di atti concreti e non di banali esortazioni, può essere diffusa solo in presenza di veri e propri educatori – quali  dovrebbero essere tutti i veri capi – capaci  di testimoniare attraverso il loro esempio e la loro azione cosa si intende, in un determinato ambiente, per collaborazione. Ne consegue che dove questa manca o è molto debole non significa che gli appartenenti al team non siano collaborativi ma che non c’è nessuno in una posizione di comando in grado di testimoniare, insegnare e pretendere la collaborazione.
 
Perché nelle aziende servono oggi persone collaborative. In ambienti di lavoro oramai generalmente organizzati secondo la logica dei team, una persona non collaborativa produce due generi di danni: uno tecnico e l’altro psicologico. Il danno tecnico consiste nel generare, attraverso la non collaborazione del singolo, un piccolo ma deleterio collo di bottiglia: la mancata o difettosa collaborazione si traduce infatti nell’ostacolare il lavoro di qualche altro componente del team, che magari sta a valle del processo, così che la velocità di tutto il sistema alla fine è determinata dalla velocità – per meglio dire, la lentezza – del collo di bottiglia. La colpa dell’inefficienza viene così pagata da chi non ha alcuna responsabilità nell’averla generata.
 
Il danno psicologico della mancanza di collaborazione, forse più grave di quello tecnico, consiste invece nello stimolare nei colleghi di lavoro comportamenti reattivi e speculari: visto che lui non collabora, allora non collaboro nemmeno io. E così via a catena, finendo con il creare quegli ambienti cinici e deprimenti dove ciascuno rinuncia a qualsiasi gesto cooperativo per la stupida ragione che facendolo farebbe la figura del fesso. Mandando così a carte quarantotto qualsiasi tentativo o investimento, spesso di ingenti proporzioni, fatto dall’organizzazione per recuperare efficienza e competitività.
 
Pepe Caglini
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